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they just want to

Pubblicato su da Sara Costantini

«e questa è la tua nuova postazione... disinfetta tutto quando vai via»
«sì certo», posò la borsa e la cartellina con i documenti e il planner. «prima di iniziare vado a prendere un caffè alla macchinetta, ti porto qualcosa capo?»
«molto gentile. no, grazie. se ne prendo un altro mi scoppia l’aorta... ma chi cazzo chiama già a quest’ora? Adam, sant’iddio, rispondi per favore... anche il cellulare?! io così non riesco...» e sculettando animatamente indietreggiò verso l’altra parte dell’ufficio.

la nuova postazione era uguale alla vecchia ma con una sedia leggermente meno sfondata. e comunque fare caso ai piccoli lati positivi delle cose fa bene alla salute, o almeno questo è ciò che Fara aveva scritto nelle note di inizio settimana del suo bullet journal, insieme ad altri piccoli aneddoti motivazionali sottolineati con penne colorate rosa e viola.

Fara prese un caffè lungo decaffeinato, perché altrimenti, in realtà, sarebbe scoppiata anche a lei l’aorta.
guardando la faccia sorridente e fittizia della promoter stampata sulla macchinetta, Fara rifletté sul fatto che la fonte del suo precario sostentamento proveniva dal costruire strategie e scoprire i misteri e le falle della psiche umana e dei codici html sulla base di grafici e percentuali, e quanto fosse inquietante come effettivamente questo basti a costruire linee di marketing, attitudini di acquisto, desideri altrui e funnel efficaci.
“eppure”, continuava a pensare, “non ho mai capito come si creino i fulmini né in cosa consista fisiologicamente il mal di testa”.
il bicchiere monouso caduto sul fondo del bidone emise un rumore sordo e senza boato.

 

l’ufficio quel giorno era particolarmente affollato; mascherine note, ma parti superiori di facce mai viste, voci mai sentite. una certezza: il sentimento spazialmente diffuso in quel luogo era un misto di accondiscendenza e disperazione. gente che sperava di scrivere per un pubblico di bofonchianti e spocchiosi intellettuali (eros e thanatos, li odiano ma vogliono piacergli), trascorreva in realtà quaranta ore a settimana a scrivere articoli per report di argomento tecnico, finanza, didascalie per grafiche promozionali, a leggere e interpretare codici, algoritmi e grafici che racchiudono, contro ogni dissertazione esistenzialista, l’essenza profonda dei nostri più intimi desideri.
comunque nulla escludeva che parte del pubblico di riferimento fosse costituito anche da quegli stessi bofonchianti e spocchiosi intellettuali – perché rimanere sul pezzo in ogni aspetto della contemporaneità, oggigiorno, è una skill imprescindibile... – o almeno, anche questo aveva appuntato Fara in un post it a forma di fiore e incollato su una pagina qualsiasi del suo bullet journal.

tornata alla sua postazione, iniziò subito a lavorare, da un lato affascinata dalla questione improrogabile per cui il tempo passa, e quindi sempre meno minuti la separavano dalla fine della giornata lavorativa. dall’altro lato però, non voleva pensare in questa prospettiva; tutti corriamo, costantemente, verso qualcosa da fare. ma cosa avrebbe dovuto fare, dopo lavoro? tornare a casa, a farsi assalire dall’ansia anticipatoria del lavoro del giorno dopo, a guardare la sua pianta di aloe dimagrire per colpa dell’ostile clima invernale, a preparare la cena con quello che poteva permettersi con il budget settimanale (tendenzilmente zuppe e legumi, perché le proteine animali fanno male se in esubero – in esubero, appunto... – questa altra nota di inizio settimana del bullet journal).
allora che senso ha agognare il passare del tempo? forse meglio radicarsi nel presente.
così si radicò nel presente, in quel marasma di voci nevrotiche, cornette telefoniche agganciate con stizza e fogli che venivano turpemente accartocciati.

 

ore X. con un occhio spiava l’orologio all’angolo dello schermo, mentre con l’altro si assicurava che il capo stesse conversando con qualcuno, per poter emettere liberamente quel suono di compiaciuto e momentaneo benessere che segue lo stiracchiarsi il collo. inaspettatamente il capo si avvicinò, ma non sembrò aver fatto minimamente caso all’indiscrezione di poco prima.
«questi sono gli articoli da rivedere, qua il numero dell’agente che devi chiamare alle diciassette, nell’altra cartella del cloud, quella lilla, trovi il planning per le prossime quattro settimane, che...» smettendo di ascoltarlo, Fara non smise di guardarlo parlare e gesticolare nervosamente. bastava un’occhiata meno superficiale per accorgersi dell’imponente pluralismo di espressioni, significati gestuali, sfumature di colori, diversità di consistenze fisiche, tattili, olfattive, uditive di cui quel luogo stava pullulando.

così iniziarono per lei a susseguirsi visioni in primo piano di scene alla rinfusa: un piccolo mucchio di capelli e polvere incastrati in una delle ruote della sedia di Cinzia, i suoi capelli neri muoversi tutti insieme come un blocco, mentre parlando al telefono spostava la cornetta da un orecchio all’altro, mostrando il suo delicato profilo, un orecchino diverso dall’altro, mentre il collo si muoveva tremante per un piccolo colpo di tosse. e poi c’era Cami, i polpastrelli alle tempie, qualcosa che le interruppe la concentrazione, mentre con la punta di un piede faceva roteare a destra e sinistra la sua sedia e quindi il suo corpo e quindi l’aria intorno a sé, aria che arrivava flebilmente addosso a Leila, ragazza madre, voce rauca e leggins leopardati. l’aspetto di una ragazzina, la fermezza di una persona che ha capito fino all’ultimo complicato inghippo del funzionamento di questo malato mondo: dopo aver riattaccato energicamente la cornetta, ecco Leila stirarsi con le braccia in su, al punto che le maniche del maglione rosa fluo le scivolano fin sotto i gomiti, in modo da scoprire strani tattoo fatti di nascosto dai suoi genitori. o forse no, continua a guardare e interpretare Fara, forse ne erano del tutto al corrente, forse ne erano anche contenti, di quella scritta in ideogrammi e quella serpe che sinuosamente si posava sul quell’avambraccio. il capo continuava a parlare, e a Fara sembrò di vedere tutto come a rallentatore. le labbra del capo si univano e separavano in movimenti regolari e uniformi, microscopiche gocce di saliva fuggivano dal cavo orale in cerca di una superficie su cui alloggiare. tra un suo scatto di palpebra e l’altro, Fara continuò a guardarsi intorno, a notare che Ilenia, in fondo all’ufficio, era ancora più taciturna del solito, e forse se ne era accorto Adam, che passandole accanto posò una mano sulla sua scrivania e compose qualche battito con le dita, come per richiamare l’attenzione di lei.

il capo parlava, aveva detto qualcosa tipo “autorevolezza del tono” e “timeline degenere”, e Fara spostando leggermente lo sguardo notò uno scambio di complici sorrisi fra Clara, maglione a righe e calzini a pois di colore diverso, e Leila, che ripresasi dal momentaneo stretching pronunciò qualche frase un po’ sconcia.
“Queste ragazze vogliono divertirsi... Queste ragazze vorrebbero solo divertirsi! E forse, inconsciamente, lo stanno facendo!”

«tutto chiaro? domande?»
«tutto chiaro, grazie», tornò alla percezione normale del tempo e delle cose, e aggiunse «però oggi devo uscire dieci minuti prima»
«non c’è problema Fara, buon lavoro».

 

seppur senza alcuna ragione per dover uscire prima, uscì prima.
ancora umida di gel igienizzante e candeggina messa dentro la confezione di un altro prodotto sedicente igienizzante (che non dovrebbe contenere semplice candeggina, ma la candeggina è il più semplice ed efficace detersivo – questo non era scritto su nessun post it, ma lo pensava profondamente) si avviò verso casa, adattandosi poco alla volta alla temperatura e alla strana situazione atmosferica della strada. i passanti, le vetrine, i cani al guinzaglio, le ruote dei veicoli, le sembravano ammantati da un bagliore irreale. qualcosa le tremò nel cuore, qualcosa che le ricordò cosa spesso è seguito a certe sensazioni. allora allungò il passo, cercando di diminuire il tempo che la separava da casa; ma qualcosa le si opponeva, qualcosa che catturava la sua intera sagoma, senza soluzione di continuità.

 

pochi passi ancora, prima di entrare nel vialetto di casa.
l’aria aveva assunto una consistenza contraddittoria collocabile nella pesantezza ma proprio a ridosso della rarefazione. era piuttosto verosimile asserire che ci fossero dei rumori circostanti, ma si trattava di segnali acustici provenienti da qualcosa, più cose e persone, mezzi pubblici e telefoni remotissimi, frapposti ad una coltre di cartone e ovatta, come certe sale prove punk.

la pioggia era fitta, ma quasi impalpabile, come se le particelle di idrogeno e ossigeno fossero di fatto disgregate ma ancora, inspiegabilmente, vicine, occupando la totalità dello spazio aereo avvolgendo ogni cosa con una calma violenta, coercitiva. nulla poteva sottrarsi a quel soffocante abbraccio. Fara guardò intorno: quella situazione atmosferica le ricordava la sensazione di disappropriazione e decontestualizzazione del sé dal contesto, tipica degli attacchi di panico; l’arresto del pensiero razionale e del riconoscimento del contorno esperienziale, in favore di una vertigine che demistifica la scontatezza del quotidiano, rendendolo improvvisamente banale e senza senso, e proprio per questo necessario. e per questo, nonostante la tachicardia, l’irrealtà, la paura, si cercano appigli, si cerca di fare le cose come si fanno di solito, si cercano le regole a cui allinearsi, per tornare in quel meccanismo in cui a fatica ci si riconosce, e fuori dal quale tuttavia non c’è esistenza.
questa volta però, riuscì a osservare quei pensieri senza connotarli come minacciosi, o incombenti; non in quel momento, non in quella situazione. percepire quel tenue e ovattato non la spaventava, ma la affascinava.
c’era lei, con la nebbia dentro. c’era il mondo, con quella nebulosa di umidità addosso; possono, le due masse, mescolarsi e arricchirsi vicendevolmente, per osmosi? sì.
sì, era stanca, al limite dello stordimento, con la vista affaticata: eppure che strano effetto le luci delle macchine, delle insegne al neon, i bagliori delle croci delle farmacie, frapposte a quello strano gelido nascondimento.

guardando il mondo il quel modo, si sentiva rallentata, ma non in fase di arresto.

si sentiva ostacolata, ma perché qualcosa le stava chiedendo in modo imperterrito di stare lì, con calma, ad accogliere fino in fondo ogni stimolo sonoro, visivo e tattile, per quanto remoto, e proprio in quanto remoto. e così si protrasse fino al vialetto di casa, mentre in testa aveva una canzone di cui non ricordava il nome, ma solo la flebile melodia, allo stesso tempo eccitante e calmante.

sotto casa c’era Toni, in una giacca tre volte la sua taglia, con un ridicolo e tenero cappello di lana. la reflex al collo.
«ma che fai?» chiese Fara con tono un po’ sarcastico.
«due scatti alla nebbia»
nebbia... già, non è davvero pioggia...”, pensò Fara. «ah dai, sembra fico»
«la nebbia è fica. e poi è importante», il rumore tipico dello scatto di una macchinetta analogica, poi un secondo di silenzio. «lo sai Fara che in fisica usano una camera a nebbia per visualizzare certi tipi di radiazione e di raggi cosmici?»

«naturalmente non ne avevo idea. e tu per cosa usi la nebbia, dato che la fotografi?»
«perché rende affascinante ciò che ogni giorno viviamo come scontato... e fotografandolo cerco di catturare questo momento di contemplazione» disse grattandosi la fronte. «nascondendo le cose» proseguì, «la nebbia ci fa venire voglia di guardare oltre, di esplorare oltre, di immaginare; come un bel vestito che rende il corpo di una persona più interessante da spogliare»

guardò Toni come un bibliofilo guarda la rara e raffinatissima prima edizione di un testo a lui caro. poi rise.
«ah! il ragazzo vuole divertirsi...ah!?».

Toni sembrò non capire, e continuò ad ascoltare, piacevolmente, la risatina e i passi di lei, ancora per molti secondi dopo che il portone le si chiuse alle spalle.

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