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606

Pubblicato su da Sara Costantini

continuavo a passare la lingua fra il palato e i denti, alla ricerca dell’ultimo, nostalgico sapore di biscotti mangiati qualche minuto prima, bevendo il caffè. passavo dolcemente – quasi auto eroticamente – la lingua nel labirinto delle gengive, mentre con il resto del mio corpo in piedi occupavo una delle poche zone di luce solare diretta, essendo la casa esposta quasi tutta a est ed essendo ormai trascorse le quattordici.

sarebbero bastati pochi centimetri più in là per farmi avere bisogno del maglione di lana che indossavo ormai da settimane ininterrottamente. era il periodo dell’anno in cui si sente il richiamo del calore naturale, in cui uscendo per strada si agogna la percezione del caldo, non la calura avvilente di agosto, ma piuttosto l’intenso tepore fruttato che caratterizza le mattine di giugno.

un letargo virale impose la sua coercizione sulle nostre vite; l’inverno si stava protraendo indeliberatamente, come il sequel di un best seller che ha rotto il cazzo ma che la gente continua a fruire per inerzia o per scaramanzia, e quel primo giorno di sole dopo settimane di pioggia lasciava prefigurare nei nostri animi angosciati il lasciarsi irradiare dal sole.  

mi stiracchiai con le braccia tirate sopra la testa ed espirando lentamente mi accorsi che per strada non c’era anima in nessuna direzione. poggiata al muro, intravedevo il mare piatto alla mia lontana sinistra, mentre sagome di filamenti trasparenti si spostavano senza criterio nel mio campo visivo sovrapponendosi al turchese del cielo, al marroncino dei mattoni, al giallo sbiadito dell’intonaco. una manciata di secondi immobile, sentivo finalmente il sole trafiggermi l’epidermide, entrandomi negli organi interni irrigiditi dal ciclo mestruale in ritardo; speravo mi sciogliesse, quel sole traditore di marzo che stava per abbandonare il lato di balcone ancora baciato dalla sua luminosa benevolenza, dopo tutti i giorni di pioggia precedenti.

una pace opprimente era scolpita nel vicinato, pesante e funzionale come la coperta protettiva che ti posano addosso quando fai i raggi dal dentista, immobilizzante ma inspiegabilmente non mortale come quando sogni di essere sotto dieci leghe marine, ineludibile come il senso di colpa e impotenza che si prova dopo la masturbazione.

tolsi la maglietta e appoggiandomi con la schiena al muro scivolai fino a sedermi sul pavimento.

apparentemente, nulla lasciava trapelare il fatto che stesse accadendo la fine del mondo, o almeno non finché, isolando il senso olfattivo, era possibile individuare l’odore di alcool e disinfettante proveniente dalle case dei vicini e dalle lenzuola di mia madre stese due piani sopra di me. alcool che presagiva infezione e che ricordava i corridoi e le immagini delle scuole elementari, gli infiniti colori a spirito senza tappo, le trecce spettinate sull’orlo della disfatta, l’odore dell’infanzia igienizzata che si sovrapponeva alla salsedine e al dolce sapore che continuava ad albergare, nonostante tutto, nella mia bocca.

chiusi gli occhi, sentii perfettamente il pensiero razionale abbandonare momentaneamente la mia coscienza, insieme alla resistenza delle braccia, che stavo tenendo strette alle ginocchia per tenermi composta e che invece ora mi cadevano ai fianchi, poi per terra, lasciando schiudere dolcemente le gambe. aprii gli occhi, guardai la strada: apparentemente, non un elemento percepibile lasciava realizzare che si stesse assistendo alla fine del mondo, a parte la rassegnata accettazione della sconfitta, testimoniata dal silenzio assoluto e dall’immobilità schiettamente esibita in ogni angolo di realtà.

la musica del mio stereo proveniente da una stanza interna accompagnava questo silenzio senza tuttavia sovrapporvisi, come se fossero due dimensioni congruenti che sussistono in trasparenza e non si trapassano. c’era la musica, ma si sentiva il silenzio, in una specie di gestalt sonora. i miei brutti piedi piatti iniziavano a soffrire la scottante carezza solare che si faceva schiaffo, mentre la sonorità sommessa da venerdì santo di violence dei Low era il perfetto correlato sonoro di quell’immobilità scolpita che si imponeva nella vita dell’umanità.

avevo quasi terminato il tempo per il riposo; quel periodo cercai di dare il massimo scopo alle giornate attraverso una programmazione minuziosa della routine, per evitare ricadute nell’astenia e per non incorrere in pensieri depressivi. lo sguardo fisso sulle scale [lent you my favorite dictionary], piccole dune di polvere e sabbia agli angoli e nelle insenature dei mattoni interruppero e aggiornarono la mia contemplazione introspettiva; chissà qual è la forza che spinge le cose più difficili da estirpare a insediarsi nei luoghi più ostici da raggiungere? i traumi infantili si arroccano nei meandri meno sondati della coscienza, lasciandosi avvicinare al massimo in modo allucinogeno nei sogni, o sottoforma di disfunzione comportamentale nel nostro reagire ai problemi della vita reale [tuun tuun ta tuun tuun ta]. per togliere quella polvere non sarebbe bastata l’acqua né una passata di straccio: serviva l’aspirapolvere. ma chi si mette a passare l’aspirapolvere negli spazi esterni di casa? [came back with ripped out pages] avrei dovuto procurare una prolunga...

un anziano signore rischiò di inciampare davanti, anzi sotto, i miei occhi, trasportando le buste dell’umido nel raccoglitore comune per strada; emise un piccolo gemito, poi immaginai un’imprecazione congrua ai movimenti labiali appena visibili al di sotto della sua mascherina cucita in casa dalla moglie.

 

 

Parlami ancora della differenza fra aspirapolvere e scopa elettrica, gli chiesi, mentre con il braccio destro fingevo goffamente la casualità di sfiorare il suo braccio sinistro. un brivido rapido e secco come lo scoppio di un palloncino mi scosse il punto più interno del petto, quando il suo mignolo, in modo meno palesemente finto-casuale, accarezzò il mio e anche l’anulare.

rise; fu il quell’occasione che esaminai attentamente i suoi lineamenti. eravamo vicini di posto quindi potevo ammirare senza filtri il suo profilo pieno di curve e insenature come una costa frastagliata. il suo sorriso sincero e toccante costituiva un roseo sentiero curvo incorniciato fra degli zigomi stranamente gonfi e sodi per un esemplare maschio adulto di specie umana. le labbra, inumidite da un lembo di lingua a intervalli irregolari, si muovevano sinuose e in modo teneramente scoordinato, mentre accompagnavano la pronuncia sbagliata di alcune lettere.

non parlavamo la stessa lingua, ma si forzava di pronunciare bene la mia. era ossessionato dai rimedi naturali, collezionava oggetti di antiquariato e aveva una specie di passione per la pulizia con l’aspirapolvere, di cui conosceva segreti e praticava reconditi utilizzi.

La scopa elettrica è maneggevole e non ha sacchetto, l’aspirapolvere ha utilizzi più massicci per una pulizia profonda e... Tanto non mi ascolti, cosa guardi?

guardavo assorta le parti delle clavicole che il suo maglione di seconda mano rendeva visibili; la sua pelle diafana somigliava più a una pellicola per alimenti che a uno strato di cellule organiche. quasi trasparente, seguivo i movimenti impercettibili che collegavano la mandibola al busto, passando da quel collo giovane costellato da peluria e leggera acne. aveva un odore di pulito e caffè, misto al leggero effluvio tipico di quell’età.

Non guardavo nulla, è che mi imbarazza guardare le persone negli occhi mentre parlano.

Ah ok, vuoi un mandarino? Tieni.

eravamo vicini di posto sul treno 606, che per un numero non era infernale. ascoltavamo un brano jazz funk dallo stesso mp3 con una cuffia ciascuno, il che ci permetteva di alimentare il nostro ridicolo corteggiamento e allo stesso tempo detestarci per il non riuscire ad ascoltare decentemente la musica dalle cuffiette.

la sua bottiglietta d’acqua era vuota per metà ed ero quasi certa che da un momento all’altro sarebbe caduta dalla scomoda posizione il cui lui l’aveva posata, su quella specie di cornice metallica intorno al finestrino. la mia ossessivo-compulsività, unita all’istinto di prendere la bottiglietta e spostarla si assopì quando mi persi a guardare il tremore frenetico dell’acqua, costretta e ribellata nell’immobilità traballante della bottiglia, un tremore interno che ricorda certi pulpiti che solo un corpo tormentato da ormoni e sentimenti inespressi sa esacerbare. un po’ come lui e me, adolescenti intorpiditi dagli schemi comportamentali e dall’imbarazzo del possibile rifiuto, oltre all’insopportabile idea di poter essere feriti qualora si arrivasse alla relazione ufficiale. quanta inutile merda soggioga le menti giovani; lo pensavo anche da giovane, ma non riuscivo comunque ad emanciparmene, neanche fosse il patriarcato.

quando gli chiesi, pochi minuti prima che scendesse dal treno, quali programmi avesse una volta tornato a casa, mi rispose che si sarebbe esercitato a dimenticarmi.

 

 

svuotati, finché il cielo ti riempirà mi disse, anzi, mi scrisse, su un biglietto che in realtà era un fazzoletto del bar della stazione e che conservai negli anni nella tasca di carta della mia storica agenda. non ho mai capito il senso di quelle parole, come non capivo cosa mi avesse riportata con la mente a così tanti anni prima. forse la consistenza del muro che toccavo, un po’ ruvida, fredda ma riscaldata dal sole e che mi ricordava la consistenza di quel collo che non avevo mai percepito tattilmente, ma solo prefigurato. forse la sensazione dell’ineluttabile, del dover accettare, aspettare e forse dimenticare. forse il calore intenso e delimitato a una sola parte del corpo, come accadde nel vagone del treno 606 il cui finestrino parzialmente coperto dalla tendina illuminava e segava a metà nell’ombra i nostri corpi esili e pieni di terrore. terrore per il futuro, ma soprattutto per il presente. diciamo sempre di riservare l’ansia per ciò che verrà, ma è solo una delle innumerevoli vigliaccherie umane; è il presente, il suo donarsi, che non riusciamo ad accettare, non riusciamo a comprenderne la disponibilità, la datità e così si cerca di deresponsabilizzarsene. non riusciamo a capire perché a me? che cosa ho di speciale? e quindi, che cosa ho che non va? che cosa spinge le persone a scegliere di smettere, o di continuare a sbagliare, cosa le spinge a tradire, a censuarsi?

provai a rispondere a una di queste domande; prevedibilmente delusa dalla mia incapacità di rispondere, accettai questo così come l’ombra irrimediabilmente arrivata a coprire tutto il mio corpo.

mi rassicurò per un momento l’idea che stesse accadendo la fine del mondo.

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