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iniziai a bere caffè senza zucchero tre anni e mezzo fa

Pubblicato su da Sara Costantini

Iniziai a bere caffè senza zucchero tre anni e mezzo fa.
Era il compleanno di Angie e cucinò per l’occasione una quantità spropositata di pasta al forno.
La trasferta per andare da lui era stata organizzata all’ultimo; era tarda mattina e avevo appena appreso l’ennesimo sciopero dei treni regionali. Ero a Pescara senza soldi e in stato piuttosto confusionale dovuto (a mio ansiogeno avviso) al mio primo tatuaggio appena fatto. Quando lasciai lo studio del mio amico tatuatore non esitai a riferirgli ogni mio minimo scombussolamento fisico: mi brucia l’avambraccio, ho un po’ di vertigini, sento la pressione in lieve calo, è normale se mi prude?, mi sembra stia sanguinando. Ma il mio amico rap hardcore mi rise in faccia insieme alla tipa anoressica dai capelli color vomito post negroni sbagliato preparato con alcol scadente, e allora risi anche io e simulai una tranquillità che proprio non mi apparteneva.
Pescara, come ogni città di mare nelle giornate assolate ma fredde primaverili, era stupenda. L'odore di iodio e pollini in gestazione inebriava l'aria dilazionando gli idrocarburi urbani.
Una luce bianca illuminava  i palazzi e le lenti degli occhiali dei passanti, e in controluce le vetrate dei negozi lasciavano percepire l’indiscrezione con cui mani sconosciute avevano lasciato le loro tracce. Che poi se ci pensi cos’è il mondo se non questo perpetuo lascito di impronte, allegoriche e non?
Pensai a una realtà dove ogni impronta di piede o mano o gomito o qualsiasi altra periferia corporea rimane sempre impressa e visibile in colori diversi su qualsiasi superficie tangibile, e mi venne in mente un quadro di Signac.
Non faceva freddissimo ma avevo brividi repentini che mi trapassavano dalle estremità degli arti fin dietro la schiena, e la mia ipocondria mi fece immediatamente ragionare sul fatto che probabilmente si trattasse dell’inizio di una reazione allergica all’inchiostro, e che dunque dopo ore di agonia al pronto soccorso (perché non mi avrebbero immediatamente dato un codice rosso), avrebbero dovuto amputarmi il braccio destro.
Mi fermai in un bar squallido nei pressi della stazione centrale e ordinai dell’acqua calda in cui avrei fatto stare in infusione la tisana alla valeriana che sempre portavo nel taschino dei medicinali da banco del mio portafoglio. Il solo gesto di aprire il filtro Pompadour mi garantì un rilascio fugace di serotonina insieme a un leggero imbarazzo dovuto alla pratica piuttosto insolita del chiedere dell’acqua calda alle undici del mattino per sciogliervi qualcosa di portato da casa. Il vapore della tisana divampava fra i microgranuli di polvere librati nello spazio del bar, e guardavo il riflesso della mia parte inferiore del volto nello specchio al dil à del bancone, dietro le spalle non igienicamente scoperte del barista e ai piedi delle bottiglie di amari impolverati posti sulle mensole.

Tornai alla stazione per avere notizie di ulteriori mezzi di trasporto ma non c’era nulla disponibile prima di un’ora e mezza. Giudicai estremamente eccessivo il lasso temporale che avrei dovuto aspettare (considerando che ero a corto di soldi e quindi la permanenza in qualsiasi libreria limitrofa durante l’attesa mi sarebbe costata insostenibile frustrazione) peraltro continuavo a sentirmi spossata e strana, avevo l’ansia. Non sapevo come fare per tornare a casa quindi alla fine decisi di chiamare Fra, Vienimi a prendere scusa tanto non ci sono treni e mi sto sentendo male, Che cazzo hai?, la sua voce seccata come sempre, come se avesse costantemente prurito ai piedi ma portasse gli anfibi e quindi non avrebbe potuto grattarsi. Risposi tipo Non lo so sicuramente ho uno shock anafilattico, porta le carte per ultimare il mio testamento, Come se avessi qualcosa da lasciare in eredità… Arrivo tra venti minuti, e poi aggiunse, Non hai niente, cacacazzi!
La aspettai alla rotonda della stazione, sotto quel sole chiaro e inefficace dal punto di vista termico. Un transessuale si avvicinò e mi accarezzò la frangetta, ebbi un moto di terrore che mi paralizzò gli arti, odio le persone che mi toccano, odio essere toccata, odio le persone cosa cazzo si tocca questo/a, bo. Si accorse del mio disappunto che spero non abbia frainteso come specifica reazione socialmente discriminante, e sorridendo come una commessa di Kiko a cui chiedi il mascara in offerta (un sorriso dunque di beffa ma che cova qualcosa di tenero) mi chiese prontamente – e come per giustificare il suo gesto – dove avessi acquistato il mio “sintetico” perché sembravano davvero capelli naturali. Glie/le risposi che erano davvero i miei capelli, rise in modo imbarazzante ma e mi offrì una sigaretta che avevo l’ansia di fumare per via del mio ipotetico imminente malore – sigaretta che si rivelò fondamentale all’arrivo di Fra, per girare un cannone di erba idroponica.
I miracoli della Provvidenza.

 

Andiamo da Angie cazzo è il suo compleanno!, esclamò Fra appena salii in macchina. Ma partiamo mo’? Non ho una lira…, Non ti preoccupà, passiamo da Mino che sicuro vuole venì pure lui, ci facciamo sta trasferta…hai una sigaretta?, Sei fortunata mia cara, Marlboro light poi…!

L’autostrada suonava colpi regolari sui cavalcavia infiniti del tratto Pescara Nord-Porto san Giorgio, forse poco oltre, e la luce riverberata nel cielo terso veniva risucchiata nel buio arancione lampione anni ’80 delle gallerie. Avevo portato dei CD che sapevo non sarebbero stati apprezzati dai miei compagni di viaggio, ma approfittai del sonno profondo di Mino morto nei sedili posteriori e del sovrappensiero silenzioso di Fra per mettere s f o r t u n a dei Fine Before You Came. Non lo ascoltavo da un po’, eppure l’emozione trasmessa era la stessa di ogni altra volta. Incredibile come uno stesso messaggio possa veicolare circostanzialmente significati universali eppure diversi, sfumature semantiche impensate, come si possa dire la stessa cosa lasciando all'interpretazione la complementarietà di un'apertura inconclusa.
Questa volta dimmi cose che non vuoi 
Dimmi cose, solo quelle che non vuoi
Fa una lista delle cose che non vuoi.

Tre frasi, un mantra, da dire a qualcuno, da ripetere alla parte confusionaria di se stessi, da dire a nessuno. Dei suoni che penetrano la parte più vacillante dell’anima. Riflettei sul fatto che, a prescindere dall’amarezza infinita degli avvenimenti, dalle chiusure tristi, dal nichilismo in metastasi concomitante con l’uscita dall’adolescenza, la prova del fatto che non ci si desensibilizza mai completamente è attestata dalla pelle d’oca repentina e persistente che si manifesta durante l’ascolto di certe canzoni.
Il viaggio durò circa tre ore, senza soste tranne un paio di minuti in una piazzola per far urinare Mino, che non appena rientrò in macchina cadde nuovamente in un sonno senza sogni.

 

La cucina in comune nella casa di studenti fuorisede in cui Angie viveva era illuminata dal sole ingannevolmente caldo di aprile, lo stesso che ti spinge a fumare fuori al balcone senza giacca ma che non ti scalda abbastanza dalle folate di vento tardo invernale. Angie, conformemente alla sua natura di licantropo, aveva anche in quell’occasione una temperatura corporea maggiore rispetto alla norma e pertanto era accaldato e pertanto era in mutande e con una canotta della salute bianco sporco ma con i calzettoni fino ai polpacci – dei tremendi calzettoni a righe di colori fluo acquistati in qualche mercato rionale almeno un decennio prima. Il suo corpo di giovane in salute era un ludibrio per i miei occhi. La corporatura compatta e asciutta, i muscoletti definiti, i testicoli sodi perfettamente visibili al di sotto di quel boxer senza marca, la leggera peluria sparsa. Solo quei polpacci, spropositati rispetto al resto delle forme, rompevano la sinuosa sagoma di un Angie preoccupato che la pasta al forno non stesse sufficientemente facendo la crosta superficiale.
La pasta al forno non era ottima ma la fierezza con cui Angie ne esponeva il procedimento di preparazione indusse me, Fra e Mino a dissimularne la disapprovazione gustativa. Mino impavido fece il bis, d'altronde era in chimica e hangover, io avevo già i sintomi della diarrea per il lattosio contenuto nei quindici chili di besciamella, quindi passai, Fra disse che era sazia. So’ contento che siete venuti oh, com’è andato il viaggio? E tu? Com’è stato fare il primo tatuaggio?, Il viaggio volato, risposi immediatamente e accorgendomi subito di aver utilizzato un tono di voce decisamente troppo alto ed entusiasmato, Avevo qualche disco reduce dal trasloco e Fra un’ottima erba idroponica, il tatuaggio è stato devastante non credo ne farò altri, secondo me ho avuto una reazione allergica perché…, Ma la vuoi smette? Cheppalle oh è normale ti brucia non te lo toccà mettici la pomata e ciao, mi interruppe Fra. Scì infatti statti serena, aggiunse Mino con la sua voce rauca e piena di sostanze psicotrope e masticate da denti marci. Vabbe sto serena però comunque non ne vale la pena farne se ci penso che questo mi resta per sempre mi…, Per sempre per sempre! Che paranoie ti fai è un pezzo di pelle…, il cinismo di Fra. Ah ma poi che robba è? Mino mi guardò mentre leccava la canna che Fra gli aveva passato per chiuderla e disse, Sembra una pallina da ping pong con quelle stanghette attaccate non so come si chiama il nome preciso…
Lo guardai facendo una smorfia come se avessi un enorme ciglia nell’occhio, Stanghette Mino…? Cristo vabbè, niente, è lo Sputnik…, Il fumo???, Idiota no è il satellite…, Un pianeta?, AIUTO MINO no è un satellite artificiale, lo Sputnik era un satellite russo lanciato nel…, Sei la Ragazza dello Sputnik, guardai Angie mentre prounciava quella frase, era tornato fra noi dopo essersi assentato da quella grottesca conversazione. In controluce vedevo le doppie punte dei suoi capelli e mi venne una fitta al cuore. Si Angie, per un libro di Murakami… La ragazza dello Sputnik…, Figo! Poi quel libro è stato il primo che mi hai prestato, Già figo.
Morte dentro.

 

Fra propose di fare un giro in centro dopo pranzo, accettammo tutti di buon grado la sua proposta tranne Angie, che per l’occasione avrebbe dovuto supplire la sua assenza di indumenti. Così mentre io sparecchiavo, Fra e Mino si erano chiusi a parlare dei limiti strutturali del sistema elettorale italiano e la tv emetteva remoti bofonchi di qualche nauseante talk show pomeridiano, Angie andò a prepararsi e nel mentre sentii distintamente ogni piccolo rumore che stava creando. Ante dell’armadio chiudersi e aprirsi, starnuti, canticchiata di un ritornello in giargianese di una canzone dei Daft Punk, spray di deodorante con alcool e parabeni spruzzato su corpo pigramente non deterso, altro starnuto derivante forse dall’esubero di gas del deodorante. Quando tornò in cucina ebbi davanti la mia persona preferita nel mondo con un rinnovato aspetto fisico. Ora, sospendendo la sofferenza per la temperatura corporea (elevata in quanto licantropo), indossava un maglione arancione e viola di lana fatto a mano indefiniti anni prima, morbido e arruffato come i suoi capelli fino alle spalle che stranamente oggi lasciava sciolti. Adoravo la lunghezza delle sue ciglia e quel biancore sporco dei denti dritti chiusi nelle sue labbra di sashimi di tonno. Come sempre aveva un odore non di pulito e ciononostante (o forse esattamente per questo motivo) familiare; aveva un odore di merendine e acqua di colonia dozzinale misto a benzina senza piombo.
Non ci sono aggettivi o fragranze in natura o comunque nominalmente note che possano racchiudere in un unico significante il significato dell’odore di Angie.
Al tempo avrei potuto descrivere nel dettaglio ogni minuzia morfologica del suo viso, delle sue mani con quelle unghie a forma di fava OGM, dei tic semi impercettibili che percorrevano il suo volto quando spiegava qualcosa, e degli incavi posti in corrispondenza del suo bacino. Mi perdevo nei suoi occhi dello stesso colore che si vede quando sei a occhi chiusi, una specie di ombra tralucente piena di vortici e spirali ipnotiche, che se ti fermi a pensare che sei a occhi chiusi, realizzi che non stai affatto non-vedendo, ma che sei nel pieno di una visione magnifica e inquietante: il mai acquietarsi della visione.
Mi misi a sedere, spensi la tv e accesi il PC pieno di sticker di gruppi inascoltabili di Angie per mettere qualche canzone da YouTube.
Fra stava rullando una canna e stava pensando a qualcosa di impegnativo, a giudicare dai piccoli morsi con cui torturava il suo labbro inferiore. Mino ruttava e si grattava la schiena di tanto in tanto, mentre scioglieva un Oki in mezzo bicchiere di acqua di rubinetto. Angie batteva le mani sulle sue cosce a simulare la batteria della canzone dei Cure che avevo messo, non ricordo quale, ma sicuramente una di Disintegration, e qualche volta lo scoprii incrociare i miei occhi da spettatrice un po’ curiosa un po’ portata per necessità ad assistere a quello spettacolo domestico.
Guardavo tutto come se fossi allo zoo e mi accertassi della veridicità  delle descrizioni fisiche e comportamentali delle bestie in questione,  poste generalmente a fianco delle gabbie o sui recinti.

Oh ragà, intervenne Mino a rompere quella visione da ripresa di telecamere nascoste dentro un bazar H24, Ma un caffè? Lo faccio subito, rispose Angie; però non c’ho lo zucchero.

E quindi dieci minuti dopo bevvi per la prima volta il caffè senza zucchero.
Era proprio come dicono i veterani di questa pratica: le prime volte si fanno smorfie e sembra di gustare il peggior liquido esistente sulla terra, ma poi ci si abitua. Non significa che il gusto di per sé non sia amaro e per certi versi disgustoso, tuttavia l’abitudine e la nuova prospettiva con cui lo si assapora rendono naturale quell’amarezza, metabolizzandola.

 

 

Ricordai con una commozione indescrivibile quella giornata nei brevi secondi che dividevano la domanda Con o senza zucchero? che mi fece Annalisa davanti alle macchinette del dipartimento mentre selezionava per me un espresso lungo, dalla mia risposta lapidaria No senza.
Trattenni il fiato, malinconica. Avrei potuto, ma perché raccontarle come è successo che io non prenda zucchero nel caffè?
Lo bevo amaro Anna, come la vita!

 

 

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