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per avere almeno un rilascio di endorfine

Pubblicato su da Sara Costantini

Certi giorni sono infiniti. Come i minuti in fila dal medico di base o come le afose ore di luglio in una città senza alberi e panchine. L’orologio dice dieci due punti quarantotto. È talmente troppo giorno che una sensazione di impotenza arriva ripetutamente a perturbare la mia vacua concentrazione, intenta a finire il capitolo sulla teoria della produzione segnica. È troppo giorno e c’è impotenza perché la notte è lontana, e la notte è la salvezza, la prova che il mutamento non è apparente. È la legittimazione per il potermi stendere come un sarcofago e dire: adesso mi annullo.
Dieci due punti cinquanta. Che poi è incredibile quanta pena facciamo noi esseri umani nella nostra ingiustificata fiducia nel tempo. Il tempo è una merda – a partire da questa cappa di umidità che comunque non scherza –  ci inganna con le sue promesse di miglioramento o fine, la verità è che la fine è un concetto così vacuo e allo stesso tempo grave che nessuno avrà la capacità linguistica per poterla definire o pensare realmente.
Siamo esseri finiti incapaci di finire davvero.
Eternità mancate, potenze depauperate di possibilità. “Miglioramento” poi, che parola disgustosa... Rispetto a cosa? Abbiamo delle categorie che ci fanno giudicare gli avvenimenti secondo parvenze di cause ed effetti, allora è comodo convincerci che ci sia una logica nel dolore e nella delusione. È inutile nasconderselo, è ovvio che tutto va male, nell’istante stesso in cui qualcosa si genera è intrinseca ad essa anche la sua corruzione; nel mentre vi è la maturazione, ma di base si tratta di un avvicinamento progressivo al decadimento. Il corso è un decorso. Il morso è un rimorso.
Diventiamo più forti. Dicono. Perdere qualcosa lascia il posto a ciò che vale, perdere qualcosa è una ricchezza. Mi sembra lo slogan degli uffici oggetti smarriti. Perdere qualcosa o qualcuno crea un vuoto nell'universo presentificato  di affetti e quotidianità di una persona.  Possibile che non si sappia fare altro che sminuire i drammi? Che vergogna essere (io) umana. Eppure ci sto talmente dentro che non posso fare altro che abbandonarmi alle contraddizioni comportamentali e di pensiero. Vorrei non essere  umana ma vorrei non essere è un’espressione che fondamentalmente è indicibile perché il non essere non è dicibile né tanto meno pensabile. Dicono.
Eppure io esisto, ma non ci sono. Penso, ma non ci sono.
Ma si può sapere chi ha deciso che dovessi essere? Qualcuno si diverte a fare questi discorsi, io no. Sempre che il colpevole sia un chi: antropocentrismo estenuante.
Provo una malinconia indescrivibile per il tempo perduto, per i ricordi scemanti, per gli assolutamente transitori momenti idillici spesso destinati all’oblio mnemonico, per gli assoli sguaiati provenienti dalla finestra di qualcuno che sta sentendo un vecchio disco dei Red Hot a tutto volume e che con grande eco si riverberano nel cortile interno di casa. Potrei chiudere la finestra e placare il rumore. Morirei di caldo. Potrei fare una doccia e convincermi di avere il potere di togliermi di dosso il senso di frustrazione che sento chiaramente perpetrarsi dal mio baricentro emotivo. Ma che forte sarebbe poi la consapevolezza che era solo un’illusione vana? Cerchiamo nelle cose ciò che sappiamo di trovarvi sin dal principio. Siamo fatti così – siamo proprio fatti così. Abbiamo le nostre credenze verosimili radicate nella coscienza e sulla base delle quali interpretiamo la realtà in ogni suo manifestarsi, ma si tratta di momenti di fallace proiezione.
Si tratta della nostra inadeguatezza di vivere in modo immediato. Della nostra incapacità di aderire spontaneamente alla realtà che ci circonda, di entrare in contatto con la nostra interiorità. È tutto un gioco di proiezioni, paure che ci inibiscono e abitudini dalle quali è impossibile disimplicarsi. Che amarezza.
Graffia forte il palato e raschia l’esofago, eppure non riesco a smettere di fumare sigarette appena sveglia e non riesco a smettere di guardare l’orologio che segna 11:11 senza esprimere uno stupido desiderio. Il mio nichilismo è spesso tradito dalla mia ingenuità.
Ho finito le noci per l’omega tre e il magnesio per gli sbalzi d’umore, allora credo che adesso mi masturberò per avere almeno un rilascio di endorfine.

 

Al mio risveglio da un sonno di due minuti, sovrappensiero e sottopeso, mi accorgo che la mia stanza è un camposanto di calzini spaiati, pantaloni che non mi stanno più bene e magliette di gruppi metal che mi ostino ad indossare con goliardia nonostante ogni volta persista un avvertito senso di anacronismo per la scelta di abbinamenti. Avevo quattordici anni quando comprai la prima felpa dei Pantera. Ne andavo fiera come l’eroe omerico di ritorno dalla sua guerra con l’animo gravido di onore e vittoria. Adesso è lì, la felpa, tra le macerie dei miei vestiti che non ho il cuore di buttare, benché non li metta più. Il legame simbolico che intrattengo con le cose mi inibisce spesso nella messa in ordine degli ambienti domestici e nelle pulizie. Potrei dare tutti questi vestiti ai mercatini dell’usato, ma poi si impone il mio egoismo affettivo che non ritiene giusto che persone diverse da me possano in qualche modo entrare in contatto con i miei vissuti esperienziali indossando camicie o jeans a vita alta che io associo a questo o quel ricordo. A volte però il desiderio di cancellazione della memoria è così forte che vorrei bruciare ogni cosa, e radermi i capelli a zero. A questo, sto pensando ultimamente con insistenza specie durante i molti momenti di notti insonni e conseguenti giri su me stessa come uno spiedo e temo che presto o tardi lo farò davvero. Mia madre mi ripete in continuazione che devo tagliare i capelli, corti. Io le rispondo con arroganza che il giorno in cui scoprirò di avere un tumore, radermi a zero (vessando precedentemente i capelli con tinte di colori assurdi e tagli orribili e strani) sarà una possibilità che prenderò senz’altro in considerazione. Ma non ora. Non ne ho il cuore. Non so da cosa sono oppressa, tagliare i capelli e buttare i vestiti sarebbe solo un palliativo fittizio con cui avrei l’illusione di alleggerirmi di qualcosa che invece è radicato nella mia anima, un palliativo fittizio con cui ci mi illuderei dei benefici del cambiamento. Ma sono tutte balle, balle come gli sconti di Trenitalia, come i reali effetti salutari dello zenzero e le frasi di consolazione non richieste dai conoscenti. Ad ogni modo, è tardi, ma sono come immobilizzata nel silenzio di questa casa e di fronte allo spettacolo di un così imbarazzante numero di vestiti ammucchiati, indistinti. In piedi gocciolante dalla doccia fredda fatta per convincermi che mi sarei svegliata, scruto questo disordine sentendomene fuori eppure colpevole.
Non si impara mai a fallire.

Il caldo, il ritardo, il mio essere a piedi e il sudore futuro – conseguenza logica della correlazione degli elementi appena indicati – mi convincono a prendere la canotta degli Iron Maiden, quella ultra smanicata che quindi non fa palesare aloni, e dei pantaloncini qualunque, ancora umida e fresca per i getti di acqua fredda, ma tutt’altro che sveglia. Do un morso a un biscotto lasciato sul tavolo della cucina indefiniti giorni prima, valuto come spesso mi accade per qualche secondo e dal nulla l’importanza dell’accorgersi della solitudine dell’esistenza ed esco. Mi sento evaporare. Inizio la mia marcia goffa nel pieno dell’ansia che da un momento all’altro potrei svenire, diretta verso la biblioteca centrale. Che ingiustizia soffrire di ansia.
Un po’ perché sono una persona disturbata e un po’ perché è vero, ho la fervida impressione che i passanti mi stiano guardando con aria disgustata, forse per via dei capelli crespi e arrotolati malamente sull’estremità della testa, reduci dalla doccia frettolosa e da poche ore di sonno disturbato dalla nausea da vodka, o forse per la mia espressione che non ho modo di verificare ma che immagino sia la solita faccia da timore nei confronti della vita che ho sempre. Comunque non mi importa granché e proseguo per la mia strada. Ogni passo rappresenta un motivo di affanno ed è una gioia passare per qualche millesimo di secondo fuori ai negozi con l’aria condizionata. Che ingiustizia il caldo.

L’mp3 passa Depeche Mode, niente male, per una volta la riproduzione casuale mi sta soddisfacendo. Questa è un’altra cosa assurda; avere un mp3 con sedici giga di musica selezionata personalmente e detestarne o comunque non avere nessuna voglia di ascoltarne i tre quarti. È come i vestiti e i capelli, accumulare e tenere lì quasi per scaramanzia o che so cosa, tenere tutto lì  incastrato nei meandri del cuore e dei cassetti per il non agognato giorno in cui quel qualcosa potrà rivelarsi utile. Persa in queste ed altre considerazioni, guardo l’orologio del cellulare, 11:11, esprimi un desiderio, ma non uno degli ultimi ricorrenti: riuscire a fare in tempo a fare tutta quella trafila di merdate burocratiche per prendere quel libro del cazzo. Ogni volta che penso in silenzio la mia voce immaginaria assume un’intonazione vagamente argentina e mi immagino pronunciare le parole stringendo le labbra in un modo che se lo vedessi fare da un’altra persona la prenderei in giro. Boh. Comunque quello non è un desiderio da poco e ora vi spiego il perché.


La biblioteca centrale è un luogo meraviglioso in cui è impossibile entrare senza restare catturati dal desiderio di vivere fra quegli scaffali e mura affrescate per il resto dei propri insulsi giorni. In cui è quasi impossibile anche entrare davvero, dato che bisogna fare una serie infinita di controlli e registrazioni che inibiscono moltissimo la voglia delle persone di entrarvi. Ecco perché è sempre vuota, o comunque popolata da pochi mitologici elementi. Io devo andarci per forza perché è l’unica biblioteca della città detentrice di un testo di cui ho assoluto bisogno per un lavoro che sto scrivendo. Come dicevo, entrarvi è impresa non da poco e per questo chi resiste alle reticenze burocratiche viene premiato con considerazione morale da parte dei bibliotecari che lavorano lì. Entrata nel vecchio chiostro, mi guardo intorno presa dallo stupore e dall’angoscia: che meraviglia questo posto, così silenzioso e antico, e che miserabile io, che ho perso mesi dietro l’irresolutezza dei miei drammi esistenziali. Senza perdermi in troppe chiacchiere con la mia coscienza, prendo l’imponente scala affrescata di destra e mi dirigo verso lo sportello registrazioni. La mancanza di sali minerali mi fa accusare ad ogni gradino tutta la sua influenza e mi immagino vedermi da fuori come una creatura monca che scala una vetta con fatica e interno coscia flaccido. Che ingiustizia dimagrire senza volerlo.
Per entrare in biblioteca bisogna: arrivare al palazzo Ducale, entrarvi, capire la direzione in cui andare per raggiungere la biblioteca, fare una serie di rampe di scale, andare allo sportello registrazioni, fare finta di essere cordiale, lasciare un documento, farsi dare la chiave per l’armadietto, scendere le scale e recarsi alla sala degli armadietti, lasciare tutti i propri averi in un armadietto, salire di nuovo le scale, fingere di nuovo cordialità con il tizio dello sportello, proseguire ed entrare nell’effettiva biblioteca, svolgere la ricerca negli appositi pc, compilare il modulo con le coordinate geografiche della collocazione del libro, compilare un modulo in cui si attesta di essere se stessi (che cosa assurda), avallando con documenti d’identità e tessera dello studente, fare finta di essere cordiale con la bibliotecaria, consegnare i moduli e l’ultimo brandello di educazione civica, aspettare un numero indefinito di minuti, ricevere il libro, ricevere un modulo da portare giù in ufficio prestiti, andare in ufficio prestiti (di cordialità non è rimasta traccia ma in genere si hanno energie a sufficienza per abbozzare dei sorrisi anonimi), ricevere in custodia il libro e tutte le informazioni/punizioni relative alla trasgressione dei termini del prestito, andare nel reparto armadietti, riprendere i propri avere, maledire il Signore perché devi ritornare in ufficio registrazioni a riconsegnare le chiavi, andare in ufficio registrazioni e dire qualcosa tipo ce l’abbiamo fatta! con un sarcasmo poco tagliente ma comunque efficace, uscire dall’edificio, morire di caldo (o freddo, in inverno) non appena si riprende il contatto atmosferologico con la realtà.
Insomma, un’esperienza ricca di scocciature. I minuti trascorsi in attesa dell’arrivo del libro sono i più divertenti. Immaginate una creatura bianchiccia e tendenzialmente anoressica vestita come una quindicenne al concerto di qualche cover band heavy metal, canotta Iron Maiden, pantaloncini strappati sporchi di marciapiedi notturni, affanno e sudore. Una creatura in evidente contrasto semantico con il luogo in cui si trova, fra giganti banchi di legno di ciliegio e affreschi di cinquecento anni prima, fra anziani intellettuali dediti alla consultazione di antichissimi documenti di archivio e studenti di ricche famiglie borghesi piegati sui Mac Pro e sui tomi di diritto costituzionale. Sono qui, con la faccia sconvolta a pensare come sempre a tutto quello che mi angoscia e a seguire i consigli che reputo consciamente merdosi di WikiHow su come combattere la ruminazione ovvero cerco di concentrarmi sul qui ed ora, sull’osservazione attenta di tutto quello che mi circonda, gli scaffali, le finestre tralucenti, le mani delicate e solcate da spesse venature di una signora anziana che sta sfogliando un libro grande come le mie paure.
Guardarsi intorno e fissare l’attenzione su cosa mi circonda, intanto respirare, secondo il metodo 4-7-8. Quattro posti vuoti mi separano da una graziosa studentessa di presumo psicologia (sfido esseri umani dediti ad altre discipline a leggere un manuale immenso di psicobiologia) ha i capelli rossi tipo ruggine aggrovigliati in uno chignon stretto intorno ad una matita di Tiger e indossa un vestito di lino verde scuro spiegazzato. Sette minuti sono già trascorsi dalla dipartita della bibliotecaria alla ricerca del testo da me richiesto. Otto secondi è stato il tempo verosimile durante il quale ho fissato una bizzarra chiazza di sudore a forma di cuore all’altezza della parte centrale della schiena di un ragazzone che mi era passato a fianco; ma come si fa ad indossare una camicia a maniche lunghe se ci sono quaranta gradi? Sorrido e mi accorgo che il mio battito è leggermente diminuito.

Continuando a sentirmi fuori luogo, intravedo i capelli ricci della bibliotecaria penzolare dietro il ciglio di una porta più avanti, sta tornando. Mi lancia un’occhiata di richiamo, una di quelle che ti fanno le commesse dei discount per comunicarti che stanno venendo a salvarti dalla confusione del non ritrovamento di ciò che stavi cercando nel disordinato reparto bevande, e io mi alzo per andarle incontro, emettendo un respiro da donna in menopausa quando deve abbassarsi a raccogliere la pezza per pulire le lenti degli occhiali. Nella mia mente da paranoica egocentrica penso che si stia domandando quale sacrilego utilizzo una persona dal mio aspetto avrebbe mai potuto fare di un così raro testo di Immanuel Kant.
Ma lei mi guarda con gli occhi di un prigioniero che rivede il mare dopo anni, con nostalgia e fascino, ma anche rimpianto, e mi dice mio figlio ne ha una dozzina di magliette di questa band. La guardo, mi guardo il busto inarcando il collo: ho una chiazza di sudore a forma di punto interrogativo proprio all’altezza dello sterno.

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