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Tasche bucate

Pubblicato su da Sara Costantini

Il sereno variabile di quel primo pomeriggio era l'impeccabile trasposizione del mio stato emotivo.
A volte per non perdere qualcosa è necessario adempiere ad una condotta mendace.
Cielo coperto, un soffio di vento, uno slancio solare. In un attimo ci si dischiude all’altro, per poi lasciarsi ritrarre nell’oblio e nel silenzio, preferendo velarsi nella fiducia che lo spettatore del nostro spettacolo comprenda guardingo il nostro significato nascosto, senza mai, tuttavia, effettivamente riuscirci.
Era solo novembre, ma il freddo era tagliente e ricordo in modo vivido che le periferie dei miei arti iniziarono ad assumere la consistenza del potpourri una volta che la fragranza iniziale ha cessato di esacerbarsi nell’aria in esplosione organolettica. Stringendomi nel cappottone a quadri, a nulla serviva accovacciare il volto nella sciarpa. Il naso era praticamente di ghiaccio e sentivo distintamente le dita confondersi nell’aria tersa e nella sua temperatura di molto inferiore agli umani 36,5°, per arrossire e a tratti tornare al pallore, e delicatamente fremere dentro le tasche bucate e piene di molliche e minuscoli scarabocchi di kleenex usati diversi autunni prima. L’escursione termica a cui sottopongono i dipendenti dei negozi è una delle manovre gestionali e di marketing meno legali e più sadiche che siano state pensate dai grandi capitalisti insieme all’invenzione delle taglie uniche e delle foto dei corpi in disfacimento sui pacchetti di sigarette per la sensibilizzazione contro il fumo. In quel periodo, oltre allo studio, lavoravo per dei bastardi privi di senso umano e civile in una nota editoria nella periferia est della città, infatti oltre alle normalmente 10 ma spesso 12 ore continuative di lavoro in temperature estremamente alte in inverno ed estremamente fredde in estate – proprio quel che si direbbe essere un icastico esempio di risparmio energetico – dovevo sottopormi a lunghe tratte su vari mezzi pubblici, ogni fermata delle quali dista, come il destino avverso spesso vuole, almeno 8 minuti a piedi a passo felpato. Non potevo comunque lamentarmi troppo, per quanto rientri fra le principali caratteristiche del mio carattere. Non potevo lamentarmi perché avevo solo 26 anni e trovare un lavoro nell’ambito più o meno affine al titolo di studi conseguito ed in via di perfezionamento e così presto era praticamente un miracolo, e per quanto fossi sottopagata e sfruttata, avevo modo di imparare ogni giorno segreti importanti del mestiere ed anche piccole e spesso grottesche lezioni di vita, animata illusoriamente dalla speranza che tutto avrebbe trovato una sua utilità nella mia futura carriera e vita in generale.

Camminare frettolosamente e cercando di non collidere con le centinaia e centinaia di persone incontrate ogni giorno per strada – sempre avuto un pessimo rapporto con il contatto fisico altrui, specie se sconosciuti, ma spesso anche con i conoscenti, di cui avverto il tocco anche solo accidentale come una minaccia ed una offesa alla mia adorata e spesso maledetta solitudine – rappresentava soprattutto in quei giorni un interessante palliativo per contrastare la stasi psichica in cui riversavo. Avevo la mente annebbiata. Rileggo spesso con gusto retroattivamente auto celebrativo e malinconico i pensieri più o meno consapevolmente tali che appuntavo sulle varie agendine prontamente infilate in borsa prima di ogni uscita. Avevo la mente che sembrava un palloncino ad elio, totalmente artificiosa, totalmente dislocata rispetto al resto del corpo, totalmente precaria nei suoi movimenti e in perpetuo procinto di staccarsi dal collo e volare via cullata dai flutti irrequieti dello smog e del vento. Vivevo una vita dissociata.
Ero io, certamente io, ma non ero io. Ero un io automatico che svolgeva impeccabilmente ogni mansione quotidiana, dal rassettare la camera al mattino, al preparare la borsa, al prendere i tram, al passare ore ed ore davanti al pc a leggere bozze tremende e correggerle e rileggerle e correggerle di nuovo e sorridere alle persone come si sorride ai bambini down o alle mamme adolescenti o ai farmacisti, e anche mangiare era un impegno, non certo un bisogno, ma in quanto impegno vi adempivo, per non collidere con la routine a suo modo rassicurante, per quanto in corto circuito, delle mie giornate.
Sugli appunti descrivevo spesso queste sensazioni come esperienza di depersonalizzazione e de realizzazione. Ma a nulla servivano le notti insonni di letture autodiagnostiche su internet circa tale sintomatologia, legata alla cattiva gestione dell’ansia, scrivevano i bloggers e i medici online, delle sindromi comuni alle generazioni post-postnucleari e internaute contemporanee occidentali.
Se ci ripenso sorrido, ma di un sorriso amaro. Avevo già capito tutto della mia vita, e ne ero certa. E avevo ragione; e ne soffrivo abbastanza. Ma con il tempo e gli impegni professionali si impara a distaccare il cuore dalle vicende esistenziali. Certamente una perdita nella qualità della vita emozionale, certamente un guadagno in fatto di delusioni e sofferenze di sorta. Ma questi guadagni li avrei capiti molti anni dopo. A quei tempi dicevo solo di essere un automa, e lo ero, ma in realtà non ero intimamente convinta di esserlo. Lo vaticinavo come se fosse un mantra, ma solo per esorcizzarne il terrore: non agognavo realmente quella morte interiore a cui facevo spesso appello. Anche se poi.
Ieri ero in piena fase meditativa. Mi è stato proposto di trasferirmi dall’altro lato del Paese. Non ci ho pensato due volte, ho iniziato subito a raggruppare le cose importati per iniziare a pensare la logistica con cui predisporre i bagagli. Non ho legami affettivi di sorta, e questa mia naturale prontezza nell’andare via temo sia l’aspetto positivo del non avere persone a cui dire addio.
Essendo il materiale cartaceo fra i primi posti in classifica dell’ordine di importanza delle cose da portare via, ho iniziato una veloce cernita mentale e con un rapido calcolo ho subito intuito che trasportare libri e diari sarà il peso più grave. Così ho iniziato a selezionare alcuni fra essi, quelli la cui assenza subitanea sarebbe un problema per la mia nuova abitazione. Per questo mi trovavo qui, ed ora di nuovo, per l’ennesima volta, a fumare sigarette su un pavimento e fissare la copiosa pila di lettere mai consegnate. Emblema di una vita: il non detto.
Una strana sensazione mi percuote ogni volta, un dejavu, una ripetitività arcana.
Ecco di cosa si tratta: del ricordo vivido di quel giorno in cui presi la mia tristezza e la posai in un angolo della mia scrivania. La guardai, e la guardai: era così reale. Era la sera del giorno sereno variabile mia trasposizione emotiva. Quanto la guardai.
Ad occhio e croce, se la memoria non mi inganna come suo solito, pesava sui duecento chili di etere, la mia tristezza, opprimente e vaga come una nube pulviscolare.
Mi ricordo perfettamente di quella consistenza perché ci sono sensazioni che segnano in modo indelebile. Non tutte, probabilmente nemmeno la maggior parte, ma certamente quelle poche efficaci solcano l’anima imprimendo un segno chiaro, una deviazione genetica che influenzerà l’eventuarsi di tutto il futuro esistenziale degli individui. Forse ci hanno riempito la testa di stronzate, quando ci hanno insegnato che l’uomo è il risultato delle sue azioni concausalmente connesse. Credo si tratti piuttosto del tentativo, votato al fallimento, di una congregazione di cellule e memoria e parola (denominato solitamente “uomo”) che si adopera all’interpretazione degli eventi come se ci fosse davvero teleologia o, peggio ancora, escatologia.
E credo piuttosto che la vita sia quella cosa fugace (solo se la si guarda retroattivamente) e per lo più triste che si interpone fra il pensiero di Dio non ancora messo in atto ed il regno di Satana, insomma, una dimensione assolutamente transitoria in cui lo spirito (della realtà antecedente e di quello finale) sfrutta la decadenza carnale per far rendere conto agli esseri umani, ad un certo e sbagliato punto della loro vita, della loro nullità. Una beffa bella e buona, una battuta della più tragica satira che fintantoché non viene compresa, la si vive illusoriamente, e nel momento in cui viene capita, perde ogni valenza simbolica nel suo venire vissuta. Queste cose le pensavo allora, ma non me ne lasciavo persuadere completamente. Altrimenti non sarei andata da nessuna parte. Continuavo a sopravvivere con quel bi pensiero per cui conoscevo la realtà delle cose ma fingevo di esserne fuori, nella convinzione fittizia che il futuro avrebbe migliorato la condizione delle cose e soprattutto il mio modo di metterle in pratica.

Molte volte mi sono rimproverata per la mia ingratitudine, per il tempo perso dietro alle velleità del decadentismo. Per le notti trascorse a bere seduta su un pavimento sporco ed illuminato da intermittenti lampadine microscopiche, sapendo che non fosse il momento adatto per nessuna cosa eppure desiderando tutto, mentre con espressione affranta ascoltavo distrattamente musiche in contrasto stridente con le mie angosce, per esorcizzarle, per ridimensionarle, per viverle nelle sfaccettature della loro potenzialità euristica. Mi sono rimproverata molte volte, ma ero spaesata, ingessata dagli interrogativi; il corpo si limitò ad essere per settimane nient’altro che un appendiabiti mobile dotato di parola, e la mia mente una stanza dal perimetro ignoto e poco illuminata di un oratorio colmo di brusii e preghiere. Ma non vi era dio e non vi era preghiera; solo una confusione incomunicabile. Riversavo ogni mia insoddisfazione nel lavoro e nello studio. Tra articoli da tradurre, bozze da correggere, mail a cui rispondere a nome non mio, a modo mio cercavo di trarre piccole gioie da quel carcere di sfruttamento e caffè scadente. Ad esempio le imbarazzanti gag fra la signora Greta dell’ufficio 12 e Il Saccente (dopo mesi in quell’editoria nessuno aveva mai scoperto il suo nome, ma tutti eravamo unanimi nel definirlo con tale epiteto fisso), oppure le lusinghe degli scrittori freelance contenti di ascoltare la mia opinione sulle loro pubblicazioni post corrette. Io ripetevo più volte che non ero specialista ma al massimo opinionista, loro tergiversavano e per lo più facevano finta di prendermi in giro per quei miei modi da ragazzina secchiona e pedante, poi mi ascoltavano argomentare i miei giudizi mentre mi impegnavo in una prosa magniloquente e nervosamente torturavo microbi di fogli nascosti nei meandri delle tasche bucate. Maledette tasche bucate! Sono qualcosa che ti fa perdere qualcos’altro dentro altro-ancora che appartiene a te stesso. Che cosa assurda. Le tasche bucate. Come ogni luogo sicuro, ad un certo punto rivela tutta la sua insidia proprio quando sei alla cassa e mancano 10 centesimi e tu eri certo di averne in tasca, ma non ci sono più, o come quando sei in una stazione ferroviaria deserta di un minuscolo paese del nord in una domenica mattina qualunque ed il tuo treno fa 20 minuti di ritardo e allora pregusti la tua sigaretta al binario due ma il tuo ultimo filtro si è dematerializzato nel non-luogo della tasca bucata.

Ad ogni modo, ricordo tutto di quei giorni e un po’ li ringrazio. Se non altro ne vennero fuori scritti interessanti. Immaturi, poco sviluppati, imbarazzantemente autoreferenziali, ma a loro modo interessanti. Con questo non sto dicendo che la sofferenza sia utile; pensare una cosa del genere appartiene ai meccanismi cognitivi delle persone illuse. Un tempo lo ero anche io, Ora non più. Il dolore non serve a nulla, perché lo scopo per cui siamo al mondo è ignoto a chiunque e l’utilità è un concetto così antropologico da non poter essere in nessun modo commensurato ad un dubbio esistenziale di tale fatta. Il dolore non serve, esiste e basta. Non serve trovare spiegazioni a tutto, né giustificare l’esistenza di qualcosa; il dolore esiste, come esistono le zanzare, le idoneità di lingua che non lasciano attestati validi ed altri milioni di cose che non hanno nessuna utilità nel ciclo della vita delle persone (comprese molte persone stesse). Esistono e non ha senso interrogarsi sulla loro utilità, perché non ne hanno.
Ecco, forse le tasche bucate un’utilità potrebbero anche averla, magari il giorno in cui smettiamo di abbandonare l’idea di scavarne a fondo, e con uno strappo liberatorio al tessuto finalmente raccogliamo i tesori perduti di tempi lontani. Centesimi, scontrini con date memorabili, chicchi li liquirizia, filtri per sigarette. Mi andava proprio, un’altra sigaretta.
Il problema è che domani parto e mi allontanerò ancora di più rispetto all’attuale punto di non ritorno.
[ma se già non c’era prima il ritorno… a che serve basirsi?]


Ma se solo avessi messo insieme tutti gli spicci persi nelle tasche bucate, forse avrei il biglietto per il ritorno.

[lettera mai consegnata qualunque]

stanca del tram 27 e dell’atroce dipendenza dai segni e schiavitù dell’interpretazione. sarebbe tutto infinitamente meno problematico se non fossimo tutti segnati dalla pericolosa eccedenza di facoltà di astrazione, di illusione interpretativa circa il significato delle cose. ed è esattamente questo abuso di interpretazione, dunque di linguaggio, a comportare spesso l’insorgenza del rovinoso silenzio. esseri votati all’incomprensione, alla chiusura. dramma umano: cataclismi di progetti, rovine di idee. il ricordo delle parole dette è un maledetto prestigiatore che si prende gioco della realtà dei fatti. odio il mio vicino, ha un odore mefitico. odio i mezzi pubblici, la vicinanza fisica a cui obbligano le persone che vorrebbero solo perdersi nella slow motion delle luci dei lampioni e dei fanali e guardare lontano senza nulla vedere. odio questa città, la sua incomprensibile grandezza. ingiustificabile grandezza. odio i miei sogni, la loro irrealizzabilità, la loro ingiustificabile grandezza. l’impotenza con cui vedo dissolversi il mio desiderio fra chilometri e vicende idiote è il logorio della mia coscienza. si perdoni la mia condotta mendace, fallace tentativo di non perdere tutto ammantando il mio essere di vanagloria. il prezzo sembrava non pesare sulle mie finanze emotive, ormai in deflazione. ormai non-finanze; ho perso fino all’ultimo spiccio dalle mie tasche bucate.
no non riesco a dire quello che pe
nso

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